Filippo II, Re di Spagna | Dmitry Beloselskiy |
Don Carlo, Infante di Spagna | Roberto Aronica |
Rodrigo, Marchese di Posa | Massimo Cavalletti |
Il Grande Inquisitore | Eric Halfvarson |
Un Frate | Oleg Tsybulko |
Elisabetta di Valois | Julianna Di Giacomo |
La Principessa d'Eboli | Ekaterina Gubanova |
Tebaldo, paggio d'Elisabetta | Simona Di Capua |
Il Conte di Lerma | Enrico Cossutta |
Un araldo reale | Saverio Fiore |
Una voce dal cielo | Laura Giordano |
Deputati fiamminghi | Tommaso Barea, Benjiamin Cho, Quanning Dou, Min Kim, Chanyoung Lee, Dario Shikhmiri |
Regia | Giancarlo Del Monaco |
Scene | Carlo Centolavigna |
Costumi | Jesus Ruiz |
Luci | Wolfgang von Zoubek |
Direttore | Zubin Mehta |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Coro e Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino |
Il Maggio Musicale Fiorentino presenta nuovamente il Don Carlo dopo soli quattro anni dalle recite al vecchio Teatro Comunale, allora “ridimensionate” alla semplice forma di concerto per i problemi finanziari che costrinsero a cancellare il previsto nuovo allestimento di Luca Ronconi.
Se si aggiunge anche la grandiosa edizione del dicembre 2004 - con la proposta delle due versioni in quattro e cinque atti , con questa si contano ben tre produzioni consecutive affidate alla bacchetta di Zubin Mehta, il quale ama sicuramente quest'opera come pochi altri titoli verdiani.
Si torna alla versione in quattro atti, con ben due nomi, tra i protagonisti in cartellone, in comune con le recite del 2013, che invece comprendevano anche l'atto di Fontainebleau. Diretta televisiva Rai, teatro esaurito, titolo importante, il direttore-simbolo della musica a Firenze da oltre trent'anni: tutto pronto, almeno sulla carta, per una grande serata, degna del prestigio del Maggio.
Il commento sull'esito della prima dipende dai parametri che si intende utilizzare. Si deve scegliere, insomma, se scegliere la severità e confrontarsi con i cosiddetti anni d'oro del Festival e rimarcare l'ambizione con cui ogni teatro dovrebbe affrontare un'opera tanto complessa, che ha bisogno di cinque (o magari sei) prime parti. Oppure se adottare la linea realistica e prendere atto delle difficoltà finanziarie in cui si trova la massima istituzione musicale toscana, tali da condizionare le scelte artistiche (con una marcata ripetitività nei nomi proposti in cartellone in questi ultimi anni) e una programmazione che pare inevitabilmente muoversi nel breve periodo, pur con iniziative degne di lode, come il ritorno del barocco al Goldoni, il minifestival del bel canto, la stagione estiva a Palazzo Pitti e la rassegna pucciniana del prossimo settembre.
A seconda del punto di vista, quindi, questo Don Carlo, salutato da un buon successo da parte del pubblico in sala, può essere considerato una parziale delusione o una serata di buona musica, con le più evidenti imperfezioni esecutive che con buona probabilità saranno assorbite nelle repliche, come accade in tutti i teatri in generale e a Firenze, da alcuni anni a questa parte, in modo particolare.
La lettura di Mehta presenta caratteristiche immediatamente riferibili al direttore onorario a vita del Maggio: la levigatezza e pulizia del suono, l'eleganza, il bel colore dell'Orchestra (in una forma degna delle migliori serate), la grandiosità delle pagine corali che non sfocia mai nella retorica o nell'eccesso, la poesia di alcune introduzioni orchestrali alle arie, come quelle che precedono Ella giammai m'amò o Tu che le vanità.
Si è lontani dal torpore delle prove verdiane di Mehta degli ultimi anni, particolarmente evidenti in Traviata e Rigoletto. C'è però anche una certa incoerenza ritmica, davvero insolita per il grande direttore, che parte con una prima scena condotta su tempi serratissimi per poi ripiegare su ritmi più convenzionali, cedendo poi a diversi momenti di slentatezza che paiono frutto di momenti di affaticamento.
Ci sono anche scollamenti vistosi tra buca e palcoscenico, in ispecie uno a testa per baritono e soprano, lasciando perdere quel che combina da solo il basso Eric Halfvarson, al suo ennesimo Grande Inquisitore, per il quale la quadratura è un optional e che sostanzialmente si dirige da solo. Il personaggio è risolto nella solita creatura mostruosa che ben si conosce, dalla voce enorme (ma ormai arida) e dal canto dallo stile molto più espressionista, ad essere indulgenti, che verdiano.
Gli altri interpreti formano una compagnia di discreto livello, dove si distingue il titolare del ruolo del titolo. Subentrato al previsto Fabio Sartori, Roberto Aronica affronta la parte, vocalmente ingrata, dell'Infante di Spagna con solida professionalità. Don Carlo è tradizionalmente affidato sia a tenori drammatici, in grado di svettare sui turgori orchestrali di alcuni passaggi, sia a voci più leggere, maggiormente duttili nel dominare la scomoda tessitura acuta.
Tenore dalle origini prettamente liriche, che ha affrontato negli anni ruoli sempre più spinti, Aronica costituisce un buon compromesso tra i due estremi sopra indicati. La voce è gradevole al centro e sale con facilità, anche se nel passaggio e negli acuti, comunque sicuri, perde un po' di armonici. Il personaggio è sostanzialmente centrato, in equilibrio tra fierezza e fragilità.
Pessima nella Nona di Beethoven della scorsa edizione del Maggio, Julianna Di Giacomo è assai più a suo agio come Elisabetta. La voce è affetta da un vibrato stretto che non le impedisce di espandersi con veemenza in zona medio-acuta. In basso, dove gravitano non poche frasi dell'infelice Regina, il suono è meno presente. L'accento è incisivo e drammatico, anche se brilla più per generosità che per regalità ed eleganza.
Carenza, quest'ultima, che la accomuna a Massimo Cavalletti, Marchese di Posa dalla dizione nitida e dai mezzi in natura molto dotati, nel volume e nel bel colore baritonale. Peccato che il passaggio superiore non sia ancora del tutto risolto e lo conduca ad acuti a volte centrati, altre volte faticosi e che il personaggio sia affrontato con poche sfumature, anche se rispetto al suo Riccardo dei Puritani poco “romantico” si avverte lo sforzo di variare il fraseggio. Ciò non lo salva, alla fine, da isolate contestazioni, che toccano pure (un po' meno isolate) ad Halfvarson.
Gli interpreti di Filippo II ed Eboli sono gli stessi del 2013. Allora la voce del basso Dmitry Beloselskiy impressionò per il volume, al servizio di un'interpretazione già di un certo rilievo, ma ancora da rifinire. A distanza di quattro anni la potenza, tuttora considerevole, sembra leggermente attenuata (anche se non è da escludersi il diverso effetto tra l'ascolto del cantante al proscenio in una recita forma di concerto e quello sul palcoscenico), la linea di canto è sempre corretta, mentre la personalità del grande interprete ancora non si è definita, restando nel limbo di una prestazione buona, ma poco esaltante. Non aiuta una pronuncia italiana che pare non aver compiuto progressi rilevanti.
Ekaterina Gubanova fu una buona Principessa Eboli e in questa occasione conferma la sua solidità e la capacità di reggere il repertorio più pesante. Pur senza numeri da capogiro o qualità timbriche particolarmente seducenti, la voce è sufficientemente duttile da poter alleggerirsi e disimpegnarsi a dovere nelle agilità della Canzone del Velo per poi trovare corpo e sostanza nelle frasi scolpire e nelle salite all'acuto di O don fatale.
Discreto, ma non a fuoco in ogni nota il Frate di Oleg Tsybulko. Simona Di Capua è un Tebaldo dalla voce piccola, ma ben emessa. Efficaci, infine, gli interventi di Enrico Cossutta come Conte di Lerma, di Saverio Fiore come Araldo Reale e di Laura Giordano come Voce dal cielo di lusso, oltre che dei sei deputati fiamminghi, giovani e quasi tutti asiatici.
Il Coro guidato da Lorenzo Fratini è eccellente per splendore sonoro, compattezza, carattere, precisione e varietà delle dinamiche.
La parte più debole della produzione è costituita probabilmente dall'allestimento, che convince solo in parte, non ispirando neppure gli interpreti a cercare una comune cifra espressiva. Giancarlo Del Monaco è solito a realizzare spettacoli ben costruiti e visivamente piacevoli, uno tra tutti la conosciuta Fanciulla del West che fu recensita da chi scrive a New York in occasione del centenario della prima esecuzione. In questo allestimento, tuttavia, il regista pare incappare nell'ambiguità - ci si perdoni la schematica semplificazione - di voler modernizzare un impianto tradizionale oppure di voler tranquillizzare con pose e costumi di gusto classico una messa in scena che resta impressa per un paio di idee da regietheater apparentemente inserite a forza.
C'è una scatola parzialmente scomponibile e su cui è dipinta in oro una mappa del mondo (“Sire, soggetta è a voi la metà della Terra”), un po' come nello spettacolo di Cesare Lievi visto recentissimamente a Genova, che incornicia tutte le scene e che si apre su squarci naturalistici che hanno spesso il gusto rétro dei vecchi fondali dipinti.
I movimenti di solisti e coro sono piuttosto scarni e convenzionali, i costumi fastosi e tradizionali, l'effetto visivo è di qualche suggestione solo a tratti. L'autodafé è risolto senza ricerca di spettacolarità e ruota attorno ai movimenti di una colossale statua bianca che riproduce il Cristo crocifisso del Cellini, conservato nel Monastero di San Lorenzo a El Escorial. Pericoloso, in un impianto tradizionale, inserire un elemento così forte come il corpo totalmente nudo di Gesù che viene fatto ruotare in varie posizioni, perché il confine tra l'esprimere l'oppressione religiosa (e la critica neppure troppo velata di Verdi verso la Chiesa reazionaria) e il provocare un certo disagio per un'immagine al limite del grottesco è labile.
Il finale è ancor più discutibile. A rischio di essere tacciati di schematismo intellettuale e nella consapevolezza di aver sempre sostenuto che è banale dividere le regie in “tradizionali” e “moderne”, si deve però rilevare che un'alterazione marcata della trama indicata nel libretto può essere accettata in una regia che propone, con coerenza e inventiva, una drammaturgia alternativa. Più difficile, al termine di un Don Carlo sostanzialmente convenzionale, è accettare che Filippo II uccida il figlio trafiggendolo con la spada, mentre i presenti riconoscono la voce di Carlo V. Anche perché il finale “soprannaturale” immaginato da Schiller e ripreso da Verdi (finale cui Del Monaco dichiara di non credere nelle note di regia) nella sua apparente assurdità possiede un fascino sinistro nel concludere bruscamente una vicenda che intreccia le irrisolvibili sofferenze e i conflitti di cinque personaggi che nessun essere umano può guarire.
La recensione si riferisce alla prima del 5 maggio 2017.
Fabrizio Moschini