Faraone | Alex Esposito |
Amaltea | Christine Rice |
Osiride | Enea Scala |
Elcìa | Carmela Remigio |
Mambre | Alisdair Kent |
Mosè | Giorgio Giuseppini |
Aronne | Marco Ciaponi |
Amenofi | Lucia Cirillo |
Direttore | Stefano Montanari |
Regia | David Pountney |
Scene | Raimund Bauer |
Costumi | Marie-Jeanne Lecca |
Luci | Fabrice Kebour |
Assistente alla regia | Polly Graham |
Maestro del Coro | Marco Faelli |
Orchestra e Coro del Teatro di San Carlo | |
Allestimento della Welsh National Opera |
Nel 1818 la Pasqua cadde il 22 marzo: esattamente diciassette giorni dopo la prima esecuzione, al San Carlo di Napoli, della nuova Azione sacra di Gioachino Rossini, il Mosè in Egitto. Si sa che allora, durante la Quaresima, erano ammesse solo rappresentazioni di argomento liturgico e i meno giovani ricorderanno, come estrema propaggine di queste usanze, la messa al bando di musica leggera e pubblicità ogni Venerdì santo da parte della vecchia RAI fino ai primi anni '70.
Le storie della musica sono piene di aneddoti sul presunto fiasco del terzo atto dell'opera che venne modificato da Rossini per la ripresa dell'anno successivo con l'inserimento della celeberrima preghiera Dal tuo stellato soglio, e si sa dell'oblio in cui cadde il lavoro, il cui posto in repertorio venne occupato dalla traduzione italiana (Mosè) della versione francese approntata dallo stesso Rossini per Parigi.
Il Mosè in Egitto "del San Carlo" era già stato ripreso nella sala borbonica nel 1993 e vi fa ritorno adesso, con un bel tempismo, proprio in Quaresima come quando vide la luce duecento anni prima. Il tutto nell'ambito delle celebrazioni per il centocinquantesimo anniversario dalla morte del grande Pesarese e mettendo il secondo tassello del programmato mosaico che prevede ogni anno una delle opere serie che Rossini scrisse per il teatro napoletano.
Tante occasioni celebrative avrebbero fatto sperare in nuovo allestimento creato all'uopo. Invece, chissà perché si è deciso di importarne uno nato nientemeno che per l’Opera Nazionale del Galles. Con tutta la considerazione per la rispettabile istituzione, purtroppo non si è colto nel segno.
Il regista David Pountney si è lasciato andare a una dichiarazione secondo cui "Il Mosè non è certo paragonabile a capolavori come Il barbiere di Siviglia o Le nozze di Figaro di Mozart, ma è un'opera che racchiude molti caratteri di grande interesse per un regista". Paragoni singolari, ma lui la vede così.
Pountney aveva impressionato molto bene l’anno scorso mettendo in scena sempre a Napoli l’Incantatrice di Tchaikovskij, ma stavolta non ha reso l’imponenza dell’opera, e non si vagheggiano scenografie da kolossal, si badi bene, ma si parla di esaltare lo spirito di un lavoro dove straordinario e solenne vanno a braccetto.
L’inizio lasciava ben sperare: con un’intuizione di forte impatto tutta la scena inizale (raffigurante la piaga delle tenebre) si è svolta nel buio quasi assoluto in sala come sulla ribalta. Un effetto che ha fatto "vivere" al pubblico le stesse sensazioni dei personaggi in scena tanto che altrettanto sorprendente, nonostante fosse previsto, è stato il folgorante ritorno della luce (Il lume che sparì rendi alle ciglia).
Dopo un tale esordio non c’è stato nessun altro spunto registico altrettanto stimolante. Anzi, soprattutto nel primo atto la drammaturgia si è appiattita contro una scenografia minima ma ingombrante (di Raimund Bauer) formata da due enormi muri, uno blu e uno rosso divisi da un’apertura centrale nella quale riluceva il sole e davanti ai quali agivano rispettivamente gli Ebrei e gli Egizi. Incombenti alle spalle degli artisti nel primo atto, nel secondo le due pareti sono state poste in angolazione diversa o ribaltate permettendo una dinamica scenica più varia, mentre nel finale formavano un unico blocco davanti al quale è stato eseguito Dal tuo stellato soglio. La loro apertura ha simulato la separazione delle acque del Mar Rosso permettendo l’esodo di Mosè e i suoi verso il fondo. A sorpresa, poi, gli Ebrei sono tornati al proscenio e avvicinati da un gruppo di Egizi in un atteggiamento minaccioso che si è sciolto poi sulle ultimissime note in gesti di pace e di speranza. Bei propositi ma alquanto fuori luogo in questo ambito.
Un allestimento dunque senza tempo, senza agganci all'attualità geopolitica (per fortuna) e con vaghe citazioni dell'antichità nei coloratissimi costumi (sempre nei toni di rosso e blu a seconda del popolo di appartenenza) di Marie-Jeanne Lecca indossati dai personaggi principali mentre il coro era abbigliato o con lunghe tuniche (le donne) o con uniformi che ricordavano quelle della Cina di Mao. Il disegno luci di Fabrice Kebour ha avuto la sua efficacia nel rendere più mutevole il gioco scenico specie nel secondo atto.
Stefano Montanari non ha mancato di sorprendere quando nel buio delle tenebre ha usato due bacchette fosforescenti per rendersi visibile dagli orchestrali. Da un punto di vista strettamente musicale, il tempo velocissimo scelto per l’inizio non ha reso un buon servizio alla gravità dell’arcano momento e ha improntato un po’ l’intera esecuzione: direzione senza dubbio attenta, ma tempi rapidi e sonorità spesso perentorie, efficaci per fare procedere l’azione ma che poco hanno reso la maestosa gravità della partitura. Basta ricordare tanto per fare un esempio come fossero pallidi gli accordi orchestrali che sottendono l'Eterno! Immenso! Incomprensibil Dio! imperiosamente invocato da Mosè. Le cose sono andate relativamente meglio nel secondo atto, dove la lunga scena del sotterraneo culminante nel quartetto "di sospensione" Mi manca la voce e nel concertato successivo ha mostrato una maggiore varietà nelle dinamiche, e lo stesso nel finale dell’opera, complessivamente di effetto trascinante. L’orchestra ha risposto al suo meglio sebbene alcune sezioni siano parse fuori fuoco, soprattutto legni e ottoni dalle sonorità non sempre immacolate.
Ottimamente distribuito il cast vocale.La vocalità di Carmela Remigio ci è parsa maturata rispetto a prove precedenti. Con una notevole sicurezza della linea vocale la cantante abruzzese ha interpretato la sua Elcia scolpendone gli accenti da tragédienne risolvendo molto bene anche la coloratura di Tormenti! Affanni! Smanie!, la grande scena finale del secondo atto. Tuttavia mentre in basso la voce mantiene il suo corpo, negli acuti per quanto ben presi e ben tenuti la voce si assottiglia e viene da chiedersi se tutto sommato la vocalità della cantante non sia troppo leggera per un ruolo siffatto.
Già dalle prime parole Alex Esposito si è distinto per l’autorevole fermezza dell’emissione, la chiarezza dell’eloquio, la morbida rotondità e l’omogeneità del timbro. L’artista scava in ogni nota e in ogni frase per dare verità a un carattere tanto complesso come quello del Faraone e dona al sovrano accenti drammatici scultorei sia nei grandi momenti (Cade dal ciglio il velo) che nei recitativi.
Osiride non è un ruolo facile, ed Enea Scala l'ha reso in modo impeccabile dando vita all'amante inquieto che mette sprezzantemente le passioni prima della ragion di Stato. Il tutto con mezzi notevoli in quanto ad estensione, controllo della linea vocale e gradevolezza del timbro da belcantista. Unico appunto è che la voce difetta un po’ di grande espansione sonora, particolarità controbilanciata da un ottimo spessore drammatico.
Giorgio Giuseppini (curiosamente abbigliato con una tunica bianca che faceva pensare ad una prosaica camicia da notte) è stato un Mosè cantato correttamente ma che a volte lasciava trasparire lo sforzo e soprattutto privo della grave magnificenza che dovrebbe essere propria del personaggio, con un fraseggio che mancava di ieraticità.
Per la sua Amaltea Christine Rice sfoggia una voce non enorme ma molto gradevole e ben emessa. La cantante ha più di una freccia al suo arco come dimostra in un'aria importante come La pace mia smarrita, eseguita con grande disinvoltura a parte una perdita di smalto nelle zone acute.
Lucia Cirillo è stata un'Amenofi dalla vocalità salda e convincente. Marco Ciaponi è stato molto bravo, in una parte comunque importante come Aronne, mentre come Mambre si è fatto apprezzare Alasdair Kent.
Il Coro del San Carlo, diretto da Marco Faelli, ha sofferto di essersi esibito a schieramenti ridotti, nettamente divise le sezioni di Egizi ed Ebrei, cosa di cui ha inevitabilmente risentito la potenza vocale dell'insieme, e ancora più ha scoperto suoni non sempre precisi specie nelle zone più alte del pentagramma. In più la compagine è stata poco convincente dal punto di vista scenico anche se si è trovata coinvolta senza colpa in movenze davvero improbabili e alle soglie della comicità involontaria come le giravolte durante Voci di giubilo.
Al termine successo vivissimo da parte di una sala gremita, tra l'altro con una buona parte di pubblico venuta da fuori appositamente per rivedere un capolavoro rossiniano di rara esecuzione.
Insieme alla prima dell’opera, è stata inaugurata nel Memus, il Museo del San Carlo, la mostra Rossini, furore napoletano a cura di Sergio Ragni, fra i più importanti esperti rossiniani del mondo e grande collezionista di cimeli. Una buona parte di questi, fra cui partiture autografe, lettere, programmi di sala e qualche curiosità, sono stati esposti nelle bacheche del piccolo museo. Occasione preziosa per qualunque amante del Cigno di Pesaro, che poi sarebbe come dire per qualunque amante della vera musica.
La recensione si riferisce alla recita del 15 marzo 2018.
Bruno Tredicine