Salomé | Inva Mula |
Hérodiade | Béatrice Uria-Monzon |
La Babylonienne | Bénédicite Roussenq |
Jean | Florian Laconi |
Hérode | Jean-François Lapointe |
Phanuel | Nicolas Courjal |
Vitellius | Jean-Marie Delpas |
Le Grand Pretre | Antoine Garcin |
La Voix du Temple | Christophe Berry |
Direttore | Victorien Vanoosten |
Regia | Jean-Louis Pichon |
Scene e costumi | Jérome Bourdin |
Luci | Michel Theuil |
Video | Georgs Flores |
Coreografie | Laurence Fanon |
Maestro del Coro | Emmanuel Trenque |
Orchestra e Coro dell'Opéra de Marseille | |
Nuova produzione Coproduzione Opéra de Marseille / Opéra de Saint-Etienne |
Chi ha paura di Massenet? La produzione operistica del compositore francese appare piuttosto ampia e dall’ispirazione decisamente eclettica nella scelta dei soggetti da mettere in musica e più di un titolo meriterebbe una riproposta, anche solo per testarne la tenuta in termini di efficacia teatrale (si può suggerire Sapho?). Tuttavia, in Italia la sua fortuna sembra limitata a due titoli: Manon e Werther, con una decisa prevalenza di quest’ultimo, almeno in tempi recenti. Ogni tanto, ma soprattutto all’estero, ci si può imbattere in qualche Cendrillon o Don Quichotte, qualora un mezzosoprano o un basso di rilievo decidano di ampliare il loro repertorio francese. In controtendenza, l’Opéra di Marsiglia, dove già nel 2011 era andato in scena Le Cid con Roberto Alagna e Béatrice Uria-Monzon, coglie l’occasione per rispolverare Hérodiade nel corso della stagione attuale.
L’opera è uno dei primi titoli maggiori di Massenet e sembra quasi proporsi come una mediazione tra quanto il compositore aveva creato fino a quel momento: da una parte oratori e composizioni di stampo religioso come Marie-Magdeleine (1873) o Ève (1875), dall’altra l’esotismo spettacolare e fantastico del Roi de Lahore (1877). Hérodiade nasce su invito di Giulio Ricordi, che cerca di coinvolgere il giovane e rampante compositore francese nella creazione di un titolo da rappresentare in prima assoluta al Teatro alla Scala, anche se la prima avrà luogo nel dicembre 1881 a Bruxelles in lingua francese (mentre la rappresentazione scaligera si terrà pochi mesi dopo, stavolta in italiano), a cui seguiranno alcuni importanti rimaneggiamenti prima di approdare alla sua forma definitiva. L’opera, che mescola afflati mistici e sfarzo orientale, trae ispirazione dalla vicenda biblica e in modo da poter stemperare quel sottile erotismo tutto francese in un’ambientazione adeguatamente lontana nel tempo e nello spazio, così da stuzzicare la borghesia parigina con quel suo misto peccaminoso di incenso e alcova ma fermandosi prima di valicare la linea dello scandalo. Esattamente come avveniva alle esposizioni di pittura accademica, i celebri Salon, dove ci si scagliava contro i nudi di Manet, in cui la tradizione veneta era reinventata nel mondo contemporaneo dei bordelli e dei picnic in campagna, mentre la sensualità dei dipinti di un Delaroche o di un Cabanel era ammirata e sollecitata, in quanto seguiva i paludamenti orientali sulla scia delle schiave di Delacroix e delle odalische di Ingres. È d’altronde il momento in cui in letteratura Pierre Loti e Anatole France descrivono i mondi lontani e lascivi che avranno importanti conseguenze nella storia del melodramma (da qui derivano infatti Lakmé, Thais ma anche Madama Butterfly), mentre un Flaubert alterna le smanie della provincia francese di Emma Bovary alle seducenti visioni misticheggianti della Tentation de Saint Antoine o all’esotismo violento delle guerre puniche raccontate inSalammbo. E proprio da un racconto di Flaubert deriva lo spunto per la vicenda di Hérodiade.
Per il melomane medio il personaggio di Salomé implica un rimando inevitabile: Richard Strauss. E quindi, conoscendo trama e personaggi dell’atto unico del compositore tedesco potrebbe rimanere alquanto spiazzato da quanto si trova in Massenet, che d’altronde compone la sua opera prima che Wilde e Strauss (con il non marginale contributo delle illustrazioni di Aubrey Beardsley) mettessero una incancellabile impronta sull’immaginazione collettiva legata al personaggio. La Salomé di Massenet è un’adolescente, ma non una perversa Lolita consapevole del proprio fascino erotico che si fissa sull’unica persona che non può ottenere, come tutti bimbi viziati. Tutt’altro: è una creatura pura, sinceramente innamorata di Jean (un Battista che qui assume tratti quasi cristologici, giusto per aumentare l’ambiguità generale in cui si mescolano eros e religione) ma di un amore che la musica ci suggerisce non vorrebbe rimanere confinato al solo lato mistico. Intorno a questa coppia alquanto particolare, destinata a un epilogo doppiamente drammatico, abbiamo un Erode invaghito di Salomé, lascivo ma meno morboso del solito (d’altronde ignora che si tratti della sua figliastra); una Erodiade che inizialmente non sa di essere madre proprio della sua rivale; uno sfondo storico in cui ha un ruolo centrale lo scontro tra ebrei invasi e romani invasori, così da permettere scene di massa, processioni e un copioso dispiegamento di comparse senza il quale probabilmente un’ambientazione simile sarebbe apparsa sprecata agli occhi del pubblico dell’epoca.
A volte sembra che simili carrozzoni orientalisti composti sulla scia del Grand Opéra mettano in difficoltà i registi, che vogliono evitare sia il kitsch da ristorante “Mille e una notte” che l’effetto film peplum anni Cinquanta. Jean-Luis Pichon, dunque, preferisce puntare sulla sottrazione, in sinergia con Jérôme Bourdin, responsabile di scene e costumi. Entrambi lavorano così tanto per via di levare che alla fine non rimane pressoché nulla in scena: lo spazio scenico è ridotto all’osso, con quinte marcate da lisci pali appuntiti forse a rievocare una certa idea di barbarie ma che ricordano pericolosamente degli stuzzicadenti giganti. L' ambiente resta immutato sia che si tratti della piazza di Gerusalemme, del tempio, di un carcere sotterraneo o della sala del trono, con al massimo qualche minimo arredo sempre realizzato con gli stessi pali (in una sobrietà di linea che fa molto Ikea) o qualche torcia. Costumi atemporali dalla foggia elegante ma generica, che nel coro non distinguono nemmeno tra i differenti popoli (se non alcuni sparuti romani che hanno degli elmetti simil prussiani, a dire il vero un poco ridicoli). L’unica concessione a un gusto un po’ più evocativo sono delle proiezioni che, ogni tanto, riempiono il fondo della scena: un cielo stellato, un paesaggio mediorientale, un muro. Insomma, siamo vicini alla rappresentazione in forma semiscenica.
Nel complesso, i personaggi entrano ed escono in un ambiente quasi immutabile, cantano al proscenio e la recitazione sembra affidata alla buona volontà dei singoli, tanto che risulta piuttosto difficile anche solo riuscire a seguire la trama.
Fortunatamente, il versante musicale riscatta lo spettacolo e offre un ottimo servizio al compositore. Il direttore Victorien Vanoosten fa ciò che non riesce al regista, ossia crea delle atmosfere: asseconda i preziosismi della raffinata scrittura orchestrale di Massenet (in questo seguito alla perfezione da un’orchestra dell’Opéra di Marsiglia in stato di grazia, duttile e vibrante) senza però restarne prigioniero, ma anzi è assai capace di variare le dinamiche imprimendo un adeguato passo teatrale. Quasi bruciante è il terzetto dello scontro tra Jean e la coppia regale mentre le scene di massa assumono, almeno nella parte musicale, il dovuto rilievo grazie anche all’apporto di un coro di ottimo livello, seppur costretto a schierarsi sempre in maniera ordinata sul palcoscenico.
Beatrice Uria-Monzon interpreta il ruolo eponimo, che tuttavia non è la protagonista dell’opera. La cantante francese sta indirizzando la sua carriera sempre più verso la corda sopranile, con debutti annunciati in Adriana Lecouvreur e nella Gioconda, entrambi nei ruoli del titolo; Erodiade si confà alla sua vocalità attuale, giocata com’è sul registro centrale pur contemplando imperiosi scatti in acuto. Alcuni dei passi più drammatici rischiano di metterla alla corda, ma nel complesso ha un merito non piccolo: riesce a creare un personaggio.
Il ruolo di Salomé arriva per Inva Mula con qualche anno di ritardo. La voce ha perso qualcosa in termini di smalto timbrico e morbidezza, ma il fraseggio rimane partecipe, seppure non troppo personale, e gli acuti sicuri, mostrando la dimestichezza che il soprano albanese ha ormai acquisito con il repertorio francese.
Di notevole interesse il cast maschile, complessivamente più a fuoco rispetto alle loro partner. Florian Laconi è un Jean autorevole e sicuro, capace di affrontare con sicurezza la pestifera tessitura del Battista, che ribatte con sadica insistenza nella zona del passaggio, nonché di salire ad acuti squillanti e luminosi. A voler essere pignoli, nonostante il gran bel sentire viene fuori un personaggio un po’ troppo muscolare e spavaldo, quasi verdiano, che mette da parte gli afflati mistici e i turbamenti dello spirito insidiato dalla carne. Ma forse per queste sfumature sarebbe stata necessaria un’impostazione registica adeguata, che invece latitava.
Ottimo anche l’Erode di Jean-François Lapointe, solido e sicuro, finalmente un tetrarca veemente e appassionato, incapace di resistere alla passione ma non per questo insulso o debosciato. A lui spetta la pagina forse più celebre dell’opera, l’aria Vision fugitive: cantata con trasporto e sicurezza strappa un applauso caloroso al pubblico marsigliese.
Più ordinario il basso Nicola Courjal nel ruolo di Phanuel a causa di una certa aridità di timbro e un’emissione non proprio morbida, tuttavia riesce a farsi valere nell’assolo del terzo atto e nel conseguente scontro con Erodiade.
Jean-Marie Delpas in quanto rappresentante in Palestina dell’imperatore Tiberio necessiterebbe di una maggiore autorevolezza vocale, così come il Gran Sacerdote di Antoine Garcin. Corretta la schiava babilonese di Bénédicte Roussenq Canavaggia e molto musicale Cristophe Berry nei suoi interventi fuori scena.
Il pubblico della domenicale apprezza e applaude tutte le arie, che sono equamente ripartite una per ogni personaggio principale (soltanto Salomé raddoppia) con punte di comprensibile entusiasmo per il cast maschile e, alle uscite finali, per il direttore.
La recensione si riferisce alla recita del 25 marzo 2018.
Daniele Galleni