Nemorino | John Osborn |
Adina | Mariangela Sicilia |
Dulcamara | Alex Esposito |
Belcore | Iurii Samoilov |
Giannetta | Francesca Benitez |
Direttore | Francesco lanzillotta |
Regia | Damiano Michieletto |
Scene | Paolo Fantin |
Costumi | Silvia Aymonino |
Disegno luci | Alessandro Carletti |
Assistente alla regia | Eleonora Gravagnola |
Maestri del Coro | Martino Faggiani e Massimo Fiocchi Malaspina |
Orchestra Filarmonica Marchigiana | |
Coro Lirico Marchigiano "Bellini" |
Nelle scorse settimane si è sviluppato un vivace e per certi versi feroce dibattito fra gli appassionati, sul web ma non solo, allorquando le varie fondazioni liriche hanno cominciato a presentare le stagioni 2018/2019. Dibattito che verteva soprattutto sull’accusa di aver voluto programmare quasi esclusivamente titoli di repertorio perché ritenuti gli unici in grado di “fare cassetta” e rimpinguare le spesso esauste casse delle fondazioni, prosciugate da anni di presunte “stramberie” quali potevano essere titoli del repertorio barocco o contemporaneo, quand’anche titoli desueti dei più noti compositori. E quindi vai con le trilogie popolari, i Barbieri, le Carmen, le Butterfly con la speranza che il pubblico possa accorrere in massa, non considerando che alla milionesima replica del titolo stranoto il pubblico potrebbe preferire di non spendere nemmeno i soldi per arrivare a teatro in tram. C’è del vero, ma a modesto parere di chi scrive è anche vero che ad un capolavoro non si può dare la colpa di essere tale rispetto ad altri titoli meno riusciti, e che il fattore discriminante per farne non una mera routine ma una vera proposta culturale deve essere il modo in cui viene rappresentato e gli artisti coinvolti. Limitiamoci al piano musicale, senza toccare il sempre spinoso problema della regia: nel caso di specie, L’elisir d’amore rientra a pieno titolo in questa analisi.
Opera vista e stravista, interpretata dai più grandi artisti di ieri e di oggi come dai più scalcagnati cantanti della nera provincia, eppure è possibile sentirla come se fosse un’opera non dico inedita ma quasi, e scoprirne preziosi particolari anche all’ennesimo ascolto? Nel caso dell’Elisir allestito come secondo titolo a Macerata Opera 2018 sì. E per una serie di ragioni. L’integralità musicale, anzitutto, cioè la riapertura di tutti i tagli cosidetti “di tradizione”, cosa che non è uno sterile estremismo filologico ma è sic et simpliciter il restituire dignità a una partitura raffinatissima ma troppo spesso ridotta a un’infilata di belle melodie. I lunghi duetti dell’Elisir, ad esempio, si possono godere appieno solo se arricchiti delle riprese variate scritte dallo stesso autore, diversamente da quella sensazione di bello ma un po’ rozzo che lasciano le esecuzioni tagliate (leggasi il finale di tradizione del duetto Adina-Nemorino, con salita al si bemolle possibilmente tenuto a dismisura da entrambi sotto una coda trallallero/trallallà che se si taglia il giro armonico precedente ci sta come i cavoli a merenda). Ugualmente il grande concertato “Più tempo invan non perdere” merita la dignità dell’esecuzione integrale, con i suoi crescendo indicati in partitura di fattura non inferiore a quelli di un Rossini, e non la risibile giustificazione che è meglio tagliarlo perché necessiterebbe di una Giannetta di spicco che non sempre si può avere (scritturare una buona seconda donna no? Per dire…).
Naturalmente perché tutto ciò si possa fare ci vuole un direttore in grado di valorizzare tutte le indicazioni di cui sopra e un cast in grado di interpretare, prima che cantare, le parti integralmente; l’optimum sarebbe anche una regia che sviluppi l’azione sotto la musica in modo che ai tagli riaperti corrisponda anche una corrispondente variazione scenica. Mi sento di scrivere che a Macerata si sia fatto l’en plein, essendoci stato il rispetto pressochè completo di queste condizioni. Il direttore Francesco Lanzillotta, anzitutto: al netto di qualche leggera intemperanza in apertura d’opera, la sua concertazione si è distinta per rigore stilistico, pulizia e dinamiche variate ma sempre al servizio di quanto scritto in partitura, con i citati crescendo che si creavano limpidi e ricchi di suono dall’ottima Filarmonica Marchigiana e i duetti si accendevano di rubati e sfumature sempre posti al servizio del canto, fino ad arrivare all’apoteosi della “Furtiva lagrima” di una bellezza quasi metafisica. Direzione di qualità veramente superiore.
La regia, poi. Pur essendo una produzione che aveva già girato per vari teatri europei a partire dal 2011 (in Italia si era vista a Palermo) l’Elisir “balneare” di Damiano Michieletto con le scene di Paolo Fantin e i costumi di Silvia Aymonino sembra fatto apposta per gli spazi dello Sferisterio. Il grande palco diventa una spiaggia assolata, dove Nemorino è un bagnino che apre e chiude ombrelloni e sistema lettini alle dipendenze di Adina, proprietaria di un colorato chiosco che campeggia sulla sinistra. Volubile e capricciosa, Adina passa il suo tempo ad abbronzarsi e accettare la corte dei bagnanti, in mezzo ai quali arriva il dandy Belcore, e Dulcamara piomba sulla scena in SUV sponsorizzato spacciando per “mirabile elisir” bevande energetiche e creme dimagranti; quando però Nemorino gli chiede “la bevanda amorosa della regina Isotta” si rivela non come un simpatico ciarlatano ma un vero e proprio spacciatore, dal momento che gli vende un allucinogeno. Spacciatore per giunta violento e pericoloso, perché durante il duetto con Adina arriva a minacciarla fisicamente per avere rifiutato il suo prodotto. Come spesso accade con le regie di Michieletto, lo spostamento di ambientazione si innesta in un rispetto pressochè assoluto dei caratteri dei personaggi, e lo svolgersi dell’azione rivela una cura sulla naturalezza della recitazione tanto più lodevole in quanto viene messa, in questo caso, al servizio dell’integralità dell’esecuzione musicale. Bellissimo vedere Nemorino che si vendica con un gavettone dei bagnanti vitelloni che lo deridono in quanto semplice bagnino (ingenuo sì ma non totalmente scemo), o la gara di spruzzi d’acqua con Adina nel finale del duetto, schermaglie estive di un giovane che corteggia la ragazza che proprio non ne vuole sapere. E le librettistiche "feste nuziali" di inizio secondo atto sono proprio tali, cioè un kitchissimo party di addio al nubilato per Adina svolto in un enorme gonfiabile a forma di torta nuziale riempito di schiuma (e chi scrive più testimoniare di averne visto uno nella realtà non troppo dissimile da questo). Appropriatissimo anche il disegno luci di Alessandro Carletti, che rende le atmosfere della spiaggia assolata salvo poi “congelare” l’azione in alcuni momenti topici inondando il palco di una luce verde o rossa, e isolando i protagonisti con fari ad occhio di bue.
Affiatata e disinvolta in scena la compagnia di canto, calata perfettamente nella visione di direttore e regista. La parte di Nemorino è tradizionalmente associata a tenori schiettamente lirici, e quindi sulla carta non sarebbe l’ideale per un cantante che non fa del colore vocale il proprio punto di forza. Invece, guarda che ti succede a teatro, John Osborn ne viene a capo in modo assolutamente convincente: dove non arriva la natura, arriva l’interpretazione, con il fraseggio sempre teso a disegnare un Nemorino ingenuo ma non tontolone, palpitante in “Quanto è bella” ma che si infiamma di passione in “Chiedi al rio perché gemente”, fino a cesellare “Adina credimi “ con una mezzavoce venata di disperazione. Splendida poi la “Furtiva lagrima”, dove la voce sembra quasi arricchirsi degli innumerevoli colori stesi in orchestra dal direttore (con bis chiesto a furor di popolo, che il cantante dirà poi essere stato il primo concesso in tutta la sua carriera). Il tutto in un quadro di grande solidità vocale, con fiati interminabili e i brani integrali affrontati senza il minimo cedimento. Del pari pregevole l’Adina di Mariangela Sicilia, il cui timbro ricco e pastoso è messo al servizio di un’interpretazione dalle mille sfaccettature e soprattutto che bene esprime l’evoluzione dei sentimenti di Adina: da un “Chiedi all’aura lusinghiera” cantato in modo quasi irridente, da chi vuole liberarsi di un fastidio, arriva alle frasi “si è fitto in capo ch'io debba amarlo, perch'ei delira d'amor per me” articolandole come se il germe dell’autentico amore nascesse in quel momento, fino all’esplosione di “Il mio rigor dimentica”, dove se proprio si può eccepire una coloratura non sfolgorante, nulla si può dire della passionalità del fraseggio, oltretutto con un enorme do acuto a siglare il tutto. Meritata l’ovazione che le ha tributato il pubblico. Il sulfureo Dulcamara di Alex Esposito si è distinto per la nitidezza e la varietà della dizione, che in un personaggio come questo è certamente fondamentale ma ancora di più lo è in questa produzione. Da un punto di vista strettamente vocale è sembrata palesarsi qualche leggera aridità del registro acuto, ma che è stata completamente riassorbita dall’interpretazione di un personaggio a tutto tondo. Ottimo cantante e interprete pure Iurii Samoilov, baritono brillante che sfoggia anch’egli un’articolazione della parola ancora più lodevole per un cantante ucraino e al debutto nel ruolo, qualità sapientemente messe in mostra nella cavatina “Come Paride vezzoso”. Cantante precisa e di voce sonora, la Giannetta di Francesca Benitez ha centralità scenica pari a quella dei colleghi nel porsi come una specie di sintesi fra Nemorino e Adina: anch’essa dipendente di Adina, vorrebbe aiutare Nemorino ma contemporaneamente è affascinata dallo stile di vita della padrona, al quale sembra aspirare.
Molto bene il Coro Lirico Marchigiano in tutte le sue sezioni, e anche protagonista di una spassosissima lezione di ginnastica sulla spiaggia all’apertura. Applausi convinti a tutti gli interpreti nel finale da parte di un pubblico ancora una volta accorso numeroso.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 21 luglio 2018.
Domenico Ciccone