Carmen | Irene Roberts |
Don José | Matthew Ryan Vickers |
Escamillo | David Bizic |
Micaëla | Valentina Mastrangelo |
Frasquita | Francesca Benitez |
Moralès | Stefano Marchisio |
Mercèdés | Adriana Di Paola |
Zuniga | Gaetano Triscari |
Le Dancaïre | Tommaso Barea |
Le Remendado | Saverio Pugliese |
Un Bohémien | Andrea Pistolesi |
Une marchande d'oranges | Olga salati |
Direttore | Francesco lanzillotta |
Regia | Jacopo Spirei |
Scene e costumi | Mauro Tinti |
Luci | Giuseppe Di Iorio |
Coreografie | Johnny Autin |
Maestri del coro | Martino Faggiani |
Altro maestro del coro | Massimo Fiocchi Malaspina |
Maestro del coro delle voci bianche | Gian Luca Paolucci |
Orchestra Filarmonica Marchigiana | |
Coro Lirico Marchigiano "Bellini" | |
Pueri cantores "Domenico Zamberletti" |
“Al posto di quelle belle bambole blu cielo e color di rose, che fecero la gioia dei nostri padri, Bizet ha voluto mostrare veri uomini e vere donne accecati, torturati dalla passione, che si agitano al vento della follia, e dei quali l’orchestra, diventata creatore e poeta, ci racconterà le angosce, le gelosie, le furie e gl’impulsi insensati” . Queste parole, che potrebbero sembrare tratte da note di regia di un allestimento odierno, in realtà furono scritte dal poeta Thèodore de Banville quando si trovò a recensire sul quotidiano Le National la prima della Carmen il 3 marzo 1875: fu subito chiaro, insomma, quale fosse la portata di un’opera che metteva in scena i sentimenti umani declinati nella loro più bruciante passionalità. Opera che ha sempre creato anche problemi di “atmosfere”, nella querelle infinita su come la scena debba essere funzionale al canto e proporre la prescritta Siviglia con le sue piazze e arene, o pensare a tempi e luoghi diversi nella volontà di rendere la creazione musicale un modo di raccontare il presente.
In questa nuova produzione che ha inaugurato la 55esima edizione di Macerata Opera, il regista Jacopo Spirei propone un “ritorno alle origini” inteso come ambientazione parigina, la patria di Bizet. Il regista vuole rifarsi alle atmosfere della Parigi erotica ma non volgare, sensuale ma non lasciva del mondo del cabaret e dei café-concert, dove Carmen diventa una diva del Crazy Horse che con le sue arti di seduzione cerca il salto di qualità nell’ambiente della cinematografia e della cultura “che contano”, attraverso il rapporto con l’influente Escamillo. E ci riuscirà, arrivando a sfilare nell’ultimo atto su una plaza de toros trasformata nel red carpet di Cannes, fra decine di flash impazziti che immortalano in diretta televisiva la proposta di matrimonio fatta da Escamillo. Su quel red carpet tanto agognato si consumerà la fine di Carmen, assalita da un Don Josè stordito nel momento del massimo parossismo dai flash delle macchine fotografiche, una delle quali servirà per ucciderla con ferocia incalzante.
È dunque una Carmen la cui regia non agisce per sottrazione, per “ripulitura dal folklore” come spesso si ascolta: c’è folklore, c’è sovrabbondanza di gente e arredi, ma non sono quelli spagnoli bensì quelli parigini, della Parigi di Pigalle tanto posticcia quanto la Siviglia bizetiana. Il primo e secondo atto diventano grandi numeri di Burlesque, con ballerine in parrucca platinata e costumi succinti, lap dance su pali sormontati da enormi labbra di gomma, ingresso della diva Carmen con costumi sgargianti e strip tease al quale il coro assiste compiaciuto. Quanto Carmen voglia in realtà affrancarsi da questo mondo appare chiaro nel terzo atto, ambientato in una banlieue degradata dove i ballerini vivono e fanno stancamente le prove degli spettacoli, vero volto del luccicante tripudio di pailettes visto in precedenza. Quanto tutto sia effimero, compresa l’unione fra gli zingari, si rivela nell’ultimo atto sul red carpet, dove fra sfilate cafonal delle amiche di Carmen viste come divette di terza categoria, lei appare come la vera protagonista che oscura le altre, pronta ad abbandonarle a una vita nelle retrovie delle ospitate televisive nei salotti televisivi pettegoli.
Come spesso accade in allestimenti così complessi, tuttavia, quando ci sono pur prevedibili limiti o elementi meno riusciti, questi sembrano risaltare in maniera più evidente, sia come scelte registiche che nell’ambito della drammaturgia dell’opera. Nel primo caso si può citare la scelta di mostrare i ballerini che nel finale terzo si abbigliano come drag queen di quart’ordine non si capisce bene perché (certo non per sedurre i doganieri), ma in modo particolare il “buco” che si viene a creare nel trattare i personaggi di Don Josè e Micaela. Il primo viene visto come un povero farlocco a senso unico, totalmente manipolato e vessato da Carmen senza alcuna illusione di sentimento reale (cosa accentuata in musica da un corposo taglio dei recitativi), mentre la seconda come una ragazza di provincia che si trova nella grande città, mediamente volitiva, mediamente innamorata, mediamente fedele. È vero che il personaggio è quello che è, ma l’impressione è che il regista la consideri un qualcosa di estraneo alla sua concezione del dramma e quindi se ne disinteressi in modo quasi completo.
Se questo allestimento lascia comunque il segno, è anche per l’assoluta compenetrazione non solo fra cantanti-attori e visione registica, che in un certo senso si darebbe per scontata, ma anche con una lettura orchestrale si potrebbe dire modellata sulla visione drammaturgica, per valorizzarne al massimo gli aspetti salienti. Sin dalla sinfonia infatti si percepisce la volontà di Francesco Lanzillotta di privilegiare sonorità asciutte e brillanti, che diano il senso sonoro del vaudeville imperante in scena e ne costituiscano il giusto completamento; quando però l’orchestra si apre ai grandi squarci drammatici come il tema del destino, l’effetto è ancora più spiazzante: un senso di precipitare dall’erotismo alla tragedia, nucleo centrale e fondante della Carmen. In questa stessa ottica si pone, ad esempio, la Chanson boheme giusta nei tempi dal prescritto andantino al più mosso ma senza quel crescendo sonoro cui siamo abituati, per cui se qualcosa si perde in tradizionale bellezza di suono se ne guadagna in nitidezza dell’amalgama fra gli strumenti solisti, ancora una volta a sottolineare il momento scenico di un affascinante numero di burlesque dove l’ironia si sposa con la sensualità. Qualche limite si può forse trovare nell’ultimo atto, dove nella grande scena finale si avverte una certa mancanza della bruciante passionalità nel confronto definitivo fra Josè e Carmen, ma l’impianto generale conferma l’impressione di una concertazione molto personale, che si può pensare possa legittimamente adattarsi ed evolversi in presenza di diverse sensibilità registiche. Un plauso anche per aver scelto di eseguire molti dei passi più frequentemente omessi nelle edizioni correnti, dalla pantomima dopo la sinfonia fra Moralès e il coro alla versione completa del duello fra Josè ed Escamillo, quest’ultimo di un’ampiezza e drammaticità tali da poterlo considerare il taglio più sciagurato dell’opera.
Il cast presentava la curiosità di nomi praticamente sconosciuti in Italia nei tre ruoli principali, dalla resa oscillante fra il buono e l’appena sufficiente. Irene Roberts appare in scena come Marlene Dietrich nell’Angelo Azzurro, e s’impone non solo nella bellezza della figura ma anche nell’accento, che scandisce un perentorio Quand je vous aimerai seguito da un fatuo Ma foi, je ne sais pas!... a creare un bel contrasto: la successiva Habanera costituisce un banco di prova tecnico non da poco, perché cantata con prese a volo d’angelo, spaccate e contorsioni che però non inficiano la solidità dell’emissione e la compattezza del timbro autenticamente mezzosopranile. Come sopra detto, il personaggio tende però a non mostrare un significativa evoluzione psicologica, e questo si riflette a volte in un canto che non palesa grandi sottigliezze di fraseggio, pur nell’ambito di un livello qualitativamente alto.
Matthew Ryan Vickers (cognome impegnativo per un tenore…) ha timbro non propriamente sopraffino e personalità un po’ generica, cosa che risalta soprattutto nel duetto del primo atto con Micaela: le cose migliorano un po’ nel secondo atto, con un’aria del Fiore quantomeno dignitosa (e accenno di smorzatura nel si bemolle di Et j’étais une chose à toi) e nel finale terzo, dove fa ascoltare accenti più partecipi. Valentina Mastrangelo canta molto bene nel primo atto, dove trova delle belle sfumature, ma non risulta altrettanto convincente nell’aria, dove palesa qualche asprezza in acuto. Non più che corretto l’Escamillo di David Bizic, che pena abbastanza in basso nei couplets di entrata, e per il resto dell’opera canta senza problemi e senza particolari sottigliezze.
Le parti di fianco tanto importanti nell’economia dell’opera si sono dimostrate tutte all’altezza della situazione. Stefano Marchisio regge benissimo l’impegno dell’intervento di Moralès con il coro, Tommaso Barea e Saverio Pugliese come Dancaire e Remendado sfoggiano belle voci e ottimo francese, come la sensuale Mercèdés di Adriana di Paola e la Frasquita di Francesca Benitez, che svetta convenientemente alla fine dell’aria di Escamillo e del quintetto. Completava onorevolmente il cast lo Zuniga di Gaetano Triscari. Coro che è apparso un pò ingessato nel gestire i tagli riaperti del primo atto, ma che si è poi comportato in maniera soddisfacente. Spigliati i bambini delle voci bianche, impegnati peraltro in difficili numeri di hip hop sul palco.
Il pubblico che ha riempito lo Sferisterio in ogni ordine di posti ha tributato applausi di cortesia agli artisti, riservando qualche dissenso al team registico.
La recensione si riferisce allo spettacolo del 19 luglio 2019.
Domenico Ciccone