Igor Stravinskij | L’uccello di fuoco, suite dal balletto op. 20 (versione del 1945) |
Anoushka Shankar e Manu Delago | Suite from Reflections (arr. Jules Buckley) |
Orchestra della Svizzera Italiana | |
Sitar | Anoushka Shankar |
Handpan e percussioni | Manu Delago |
Direttore | Marcus Poschner |
Un basilare principio della fisica recita che «nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma». La legge di Lavoisier si applica anche all’Arte, tanto più in quella musicale. Da sempre il progresso in musica, il nuovo, vive di meticciato, di scambi culturali, sociali e temporali; pensiamo alla nascita del jazz sul finire dell’Ottocento, tanto per fare un esempio eclatante. Ed è lo stesso principio che anima la musica di Anoushka Shankar, indiana nata a Londra e cresciuta tra Europa, America e Asia al seguito del padre Ravi, il famoso sitarista. Proprio colui che portò la musica classica indiana in occidente, ai Beatles, a Woodstock, e anche nel suo versante più “colto” (due concerti per sitar e un significativo incontro con Yehudi Menuhin in West Meets East).
Anoushka ha portato avanti questo discorso aggiornandolo alla sua sensibilità di cittadina del mondo nata negli anni Ottanta e ha ottenuto risultati di gran lunga maggiori e più interessanti di quelli di Ravi: ha preso il sitar, l’ha emancipato dal suo ruolo di strumento principe della musica tradizionale indiana e l’ha introdotto nell’attuale villaggio globale, creando un mélange affascinante di jazz, elettronica, flamenco e musica classica indiana e occidentale. In questo senso Reflections – suo ultimo disco per Deutsche Gramophone – non è un semplice best of, ma un riepilogo del suo percorso dal periodo dell’apprendistato giovanile, quando in veste di allieva duettava con Ravi, a quello che è diventata oggi, la miglior interprete di sitar di questi primi decenni del XXI secolo.
Dopo un’estate tormentata da problemi di salute per i quali ha dovuto sottoporsi a un intervento di isterectomia, la musicista sceglie l’auditorium di Lugano per il suo ritorno sul palcoscenico. Accompagnata dal suo collaboratore abituale Manu Delago e dall’Orchestra della Svizzera Italiana diretta da Marcus Poschner, presenta una suite di cinquanta minuti tratta da Reflections, una nuova veste sinfonica per le sue canzoni appositamente confezionata da Jules Buckley.
Un’operazione che richiama alla memoria tentativi più o meno riusciti di contaminazioni in voga nel rock progressivo degli anni Settanta che in questo caso però si mostra molto meno audace e, forse anche per questo, meno pacchiana: l’orchestra ridotta ai soli archi fornisce un sicuro quanto semplice accompagnamento senza imbastire, tranne sporadici casi, dialoghi con Shankar e Delago. L’impressione è che la forma canzone sia limitante per un’orchestra, alla quale manca la possibilità di sviluppare un discorso più pregnante con i solisti e costretta a relegarsi a semplice fondale da cui suggerire un’atmosfera.
Che cosa resta? Una coppia affiatatissima al punto che definire Delago un semplice “collaboratore” di Shankar è riduttivo: il loro rapporto più che subordinato appare paritario, non solo dal punto di vista interpretativo, ma anche da quello della condivisione degli ideali musicali, la ricerca verso nuove sonorità e la creazione di un nuovo linguaggio. Se su quest’ultimo punto non possiamo ancora esprimerci, possiamo dire che il primo è stato ampiamente raggiunto: entrambi sono probabilmente i massimi virtuosi dei rispettivi strumenti, il sitar e l’hang (o handpan: lo strumento è talmente giovane che non c’è ancora chiarezza circa la nomenclatura!). I loro timbri sembrano pensati apposta per fondersi e risuonare insieme, in nome di una ricchezza armonica che esalta le sonorità di ambedue.
Le ovazioni che investono i due musicisti al termine del concerto, costringendoli a due encore, hanno il sapore della liberazione per Anoushka Shankar, la fine di un brutto periodo personale: dalla balconata la vediamo abbandonare il palcoscenico saltellante di gioia, le braccia alzate verso il cielo.
Un ritorno a lungo atteso, il suo, che rischia di far passare un po’ sottotraccia la prima parte del concerto dedicata all’Uccello di fuoco: il pubblico, che ha riempito ogni poltrona fino a raggiungere – e superare: lunghe liste d’attesa – il tutto esaurito, non sembrava esattamente essere accorso per Stravinskij. Peccato perché ha ascoltato forse un po’ troppo distrattamente questa interpretazione delicata che avrebbe meritato maggiori applausi (e meno colpi di tosse, che da sempre sono il vero indice di attenzione degli ascoltatori). È un Uccello impressionista, quello tratteggiato da Poschner e dall’OSI, con suoni e gesti delicati, soffusi; a tratti leggermente sbiaditi da questa gentilezza che forse non compete del tutto al compositore, benché si tratti della terza versione della suite ricavata nel 1945, e Stravinskij non era più il tumultuoso fauve di quando concepì il balletto. La sensazione è che Poschner non stia dirigendo una riduzione orchestrale, ma la sua originaria rappresentazione coreutica: come se fossero in buca ad accompagnare i ballerini in palcoscenico, l’OSI sembra porre maggiore risalto alla drammaturgia piuttosto che alla musica in sé.
La recensione si riferisce al concerto del 7 novembre 2019.
Emiliano Michelon