Il Conte di Luna | Vasily Ladyuk |
Leonora | Guanqun Yu (22 gennaio) |
Marta Torbidoni (23 gennaio) | |
Azucena | Nino Surguladze (22 gennaio) |
Cristina Melis (23 gennaio) | |
Manrico | Riccardo Massi (22 gennaio) |
Diego Cavazzin (23 gennaio) | |
Ferrando | Marco Spotti |
Ines | Tonia Langella |
Ruiz / Un messo | Cristiano Olivieri |
Un vecchio zingaro | Nicolò Donini |
Direttore | Pinchas Steinberg |
Regia, scene e luci | Robert Wilson |
Costumi | Julia von Leliwa |
Drammaturgia | José Enrique Macián |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
Sono lontani i tempi in cui le caratteristiche dominanti del Trovatore erano considerate il colore corrusco e ferrigno e la drammaticità esasperata, che si traducevano spesso in esecuzioni dagli accenti iperbolici, con scansioni ritmiche inesorabili, sacrificando o non valorizzando appieno le atmosfere notturne, gli ampi squarci lirici, le ombre misteriose e magiche di cui è intrisa la partitura. Dicevo dunque che quei tempi sono lontani, e per fortuna mi verrebbe da dire, a patto però che non si scada nell’eccesso opposto.
Nel programma di sala del Teatro Comunale di Bologna vengono riportati ampi stralci di un articolo firmato da Robert Wilson e pubblicato in occasione del recente Trouvère allestito al Teatro Farnese di Parma, per il quale la presente regia era stata originariamente concepita. Vi si legge, tra l’altro: Per la maggior parte di noi occidentali è strano, quando si rappresenta un’opera, che il cantante canti una melodia in linea con la musica che lo accompagna e ciò che vediamo sia in contrasto. Il movimento può essere puro e indipendente e quello che vediamo non deve per forza essere connesso a quello che ascoltiamo. E ancora: Il cantante dovrebbe essere contemporaneamente fuoco o ghiaccio. Le parole di Manrico possono essere piene d’amore per Leonora o per sua madre oppure selvagge d’odio nei confronti del conte, ma i suoi movimenti dovrebbero essere freddi, gelidi. Si opera cioè in sottrazione (tanto per cambiare), congelando la gestualità dei cantanti in pose e movimenti stilizzati (Idem) mutuati dal teatro kabuki (idem idem), che se in qualche momento creano un clima di incantata suggestione (vedi il soliloquio del Conte con lo sfondo di un cielo nuvoloso solcato dal volo lento di un candido volatile) e sempre colgono il segno nella raffigurazione di elegantissimi tableau vivant, tuttavia alla fine lasciano un che di incompiuto nella resa della particolare drammaturgia verdiana; per esempio, nella bruciante e straordinaria sintesi che il cigno di Busseto opera nel finale dell’opera, qui raggelata e raggelante immagine vivificata soltanto da un meccanico scatto del braccio del Conte. Bisogna dire che la produzione era nata per la versione francese del Trovatore, per certi aspetti un’opera assai diversa dall’originale, innanzitutto per la lingua che sfuma gli spigoli e addolcisce il tutto, poi per il lavoro tutt’altro che insignificante che Verdi operò sull’orchestrazione, per l’aggiunta dei lunghi ballabili e per le vere e proprie riscritture, vedi in particolare il finale, a Parigi più elaborato con l’inserimento del Miserere e del canto di Manrico fuori scena. Non ho visto Le Trouvère parmense e può darsi che l’impatto scenico, dovuto anche agli spazi considerevolmente differenti del Teatro Farnese, risultasse dissimile, ma nel Trovatore in italiano questa impostazione non sempre convinceva. La scena, concepita (come anche le fredde luci) dallo stesso Wilson, consiste in un contenitore, una scatola che racchiude in sé e opprime i destini dei personaggi. Sulla parete di fondo vengono proiettate immagini di vario genere. Oltre ai personaggi e al coro gli spazi sono popolati da varie figure: uomini e donne in un filmato dei primi anni del secolo scorso che guardano nell’obbiettivo con espressione enigmatica, un vecchio spesso presente che dà il via all’azione e che sembra un Verdi divertito e godereccio, una donna anziana che spinge una carrozzina, una donna giovane con due fanciulle presso una fontana. Una realtà parallela silenziosa … queste figure … vivono in un altro mondo, un mondo di ricordi. Esistono al fianco dei personaggi di Verdi ma raramente interagiscono tra loro (Robert Wilson). Alla base della scena dei led al neon lampeggiano al mutare dei tempi musicali, all’incresparsi delle sonorità o… quando pare al regista. Mi dicono che al Teatro Farnese le lunghe danze erano mimate da pugili; qui, dove i ballabili non sono presenti, il regista ha voluto mantenere una parte della scena ed i mimi uomini, donne, bambini ambosessi e una vecchia abbigliata eccentricamente danno vita ad un eterno incontro di boxe collettivo, scoordinato e volutamente grottesco, scandito da percussioni, mentre il solito vecchio se la spassa godendosi la scena (non così una parte del pubblico). I costumi raffinati e stilizzati sono firmati da Julia von Leliwa. Trucco elaborato a cura di Manu Halligan. Il tutto sulle varie tonalità che vanno dal blu al grigio.
Sulla stessa lunghezza d’onda del regista è Pinchas Steinberg, il direttore. Quindi via di nuovo a sottrarre effetti anche alla parte musicale. Solo che oltre agli effetti si sottraggono anche pagine di partitura, tanto che un ascoltatore radiofonico che non ne sapesse la fonte potrebbe pensare ad un’esecuzione di cinquanta o sessant’anni fa, non fosse per la lettura estremamente minimalistica. Venivano accolti tutti, ma proprio tutti, i tagli di tradizione come anche tutte le varianti in acuto non scritte (comprese alcune meno consuete come l’orrido sol3 del baritono a Leonora è mia! e il do5 del soprano (in questo caso eseguito solo da Guanqun Yu) nel Miserere a Di te scordarmi!). Ci viene però risparmiato l’infelice Son io dal ciel disceso o in ciel son io con te di Manrico alla fine del secondo atto e si salva dalla falcidia la cabaletta di Leonora Tu vedrai che amore in terra. Ma al di là di questo, si tratta di una direzione certamente professionale, alla quale vanno riconosciuti alcuni pregevoli dettagli strumentali, come il tono lamentoso di oboe e violini primi durante Condotta ell’era in ceppi, o la delicata trama orchestrale sotto a Il balen del suo sorriso. Ma devo purtroppo sottolineare anche la mancanza di scariche elettriche (a questo provvedevano il led al neon alquanto fastidiosi), della tensione necessaria a cogliere e rendere il senso dei canonici snodi drammatici della partitura. Tutto scorre ordinato ed elegante, fatte salve le consuete défaillances degli ottoni, in perfetta sintonia con la parte visiva e altrettanto avara nel donare emozioni. Buona la prova del Coro del Teatro Comunale diretto dal nuovo maestro Alberto Malazzi.
Luci e ombre per quanto riguarda le due compagnie di canto. Le più acclamate sono le due interpreti di Leonora. Guanqun Yu è un lirico poco sonoro in basso, mentre la seconda ottava suona più nutrita. Può vantare una linea di canto sicura e piuttosto espressiva. Il suo momento migliore D’amor sull’ali rosee, felice per il bel legato, le sfumature, il tono giustamente dolente.
Anche Marta Torbidoni è un soprano non più che lirico, ma rispetto alla collega cinese la vocalità è più consistente. Qualche tensione nella zona acuta a piena voce sfocia in una cadenza dell’aria del primo atto la cui nota estrema (do5) fa sobbalzare sulla sedia, mentre quando canta dolcemente le cose vanno decisamente meglio (aria del quarto atto), tanto da meritarsi applausi calorosissimi.
Nino Surguladze (Azucena molto festeggiata) ha un registro grave non particolarmente ricco che la cantante tende talvolta a gonfiare non effetti poco gradevoli. Flebile in prossimità del passaggio di registro inferiore, la voce salendo acquista corpo e espansione, a prezzo di qualche forzatura nelle note più estreme (a la spremi dal mio cor sceglie la variante più acuta che sale a do5, anche se toccato con un passaggio vocalizzato). La personalità però è di prim’ordine e la presenza scenica di quelle che s’imprimono nella memoria. Si tratta inoltre dell’elemento della compagnia che ha meglio “digerito” la regia di Wilson, resa con grande professionalità e convinzione.
Anche Cristina Melis raccoglie consensi in virtù di una vocalità più omogenea di quella della collega, ma è meno abile nel gestire i propri limiti e non può vantare altrettanta forza espressiva. Il mezzosoprano di origini sarde è particolarmente efficace nei momenti in cui prevalgono l’affetto materno o quando lo straziante ricordo si sublima in dolorose emissioni a fior di labbro. Tende invece ad espugnare i momenti di maggior tensione all’arma bianca e non risulta la sua carta vincente, nonostante lo strumento piuttosto generoso.
Vasily Ladyuk è il Conte di Luna in entrambe le serate in quanto Dario Solari, titolare della recita del 22 gennaio, abbandona per indisposizione. Si rivela un baritono solido, più a suo agio la sera del 23 gennaio, con buone intenzioni espressive anche se non sempre rese al meglio. Qualche difetto di pronuncia sarà facilmente risolvibile.
I due tenori hanno entrambi il merito di affrontare Di quella pira nella tonalità originale. Riccardo Massi in possesso di una vocalità piuttosto solida e dalla franca espansione appare più convincente del collega, anche se dovrebbe lavorare di più sui colori e sul fraseggio. Fastidiose appaiono però certe alterazioni delle vocali (soprattutto la i), probabilmente per favorire la facilità di emissione.
Diego Cavazzin avrebbe dalla sua buon timbro e proiezione del suono, ma troppo spesso tende a forzare accento ed emissione mandando tutto a carte quarantotto. Peccato, perché i suoi mezzi vocali sarebbero ragguardevoli.
Non del tutto a suo agio (in particolare il 22 gennaio) Marco Spotti, comunque tutto sommato dignitoso, ma al quale la vocalità di Ferrando, assai più ostica di quanto comunemente si creda, non calza a pennello.
Di buon rilievo il Vecchio zingaro di Nicolò Donini e abbastanza corretti Cristiano Olivieri (Ruiz e Un messo) e Tonia Langella (Ines).
Successo non più che cordiale alla prima e un poco più caloroso alla replica.
Vorrei terminare con un appunto. Nel programma di sala, di solito strumento prezioso per le notizie e gli stimoli, ho notato due inesattezze: nella cronologia delle rappresentazioni del Trovatore al Teatro Comunale di Bologna non appare la produzione del 2005 diretta da Rizzi e messa in scena da Curran; mentre nella discografia viene assegnata come data il 1995 (in realtà data della pubblicazione da parte della Deutsche Grammophon) all’edizione salisburghese del 1962 diretta da Karajan, con Corelli, Price, Simionato, Bastianini.
La recensione si riferisce alle recite del 22 e 23 gennaio 2019.
Silvano Capecchi