Sono già trascorsi quarant'anni da quando Maria Callas fu trovata priva di vita dai domestici nell'abitazione parigina al numero 36 di Avenue Georges Mandel, ultima dimora negli anni più cupi della depressione, che l'avevano portata ad isolarsi dal mondo, schiava dei sonniferi, fino alla morte. Una fine improvvisa e avvolta nel mistero, non meno di altri particolari dell'esistenza, artisticamente splendida quanto personalmente tragica, della diva. Alcuni biografi parlano apertamente di suicidio, nessuno ha potuto affermarlo con certezza, esattamente come per quel bambino avuto da Onassis nell'aprile del 1960 e morto pochi secondi dopo la nascita, di cui si legge in alcune fonti.
Alla morte della Callas seguì la commozione tra gli amanti dell'opera, lo sgomento dei fan e l'uscita di un gran numero di biografie, ma non la genesi del mito. Quello era già nato durante la vita del soprano, statunitense di nascita ma da famiglia greca, poi naturalizzata italiana dopo il matrimonio con Meneghini e poi ancora naturalizzata greca. Il mito non fu postumo, ma nacque negli anni in cui la cantante si affermò a livello planetario come stella del canto e non ha mai cessato di essere alimentato, restando vivo anche tra chi non l'ha mai ascoltata a teatro, ma la conosce solo per le registrazioni - fortunatamente numerose - che testimoniano il suo percorso artistico. Non altrettanto numerose sono le testimonianze video, nessuna delle quali si riferisce ad una recita completa; quasi una beffa per una cantante della quale si è sempre celebrata la magnetica presenza scenica.
I dischi ufficiali e i nastri delle recite dal vivo sono stati pubblicati e ristampati con scrupolo quasi maniacale, trattando come reliquia da condividere e commercializzare qualsiasi fonte sonora, anche quelle incomplete, anche le più disastrate (come l'Armida di Rossini a Firenze o l'Ifigenia in Tauride della Scala), fino alle interviste, le masterclass, le prove, i frammenti casalinghi dei mesi precedenti la morte. È un fenomeno quasi circoscritto alla Callas quello dei falsi messi in circolazione per cinismo commerciale: quasi l'intera parte di Turandot fu ricavata dalle più tarde incisioni in studio per la EMI, combinata con la voce di Del Monaco dell'incisione Decca del tenore, trattata con effetti che la facessero credere una brutta ripresa radiofonica e poi pubblicata spacciandola per una recita a Buenos Aires del 20 maggio 1949, laddove di autentico vi era solo un breve frammento del duetto finale. Un fake che ingannò, per troppo amore, anche un serio e colto biografo come John Ardoin. Troppa era la voglia di avere una nuova testimonianza della Callas, ancor più rinfocolata dopo il miracoloso ritrovamento dei nastri che testimoniavano l'unico incontro della “divina” con Alfredo Kraus, nella Traviata di Lisbona del 1958.
Della Callas si vagheggia che esistano registrazioni ancora da scoprire (o possedute da insani collezionisti), della Valchiria e della Turandot di Venezia, del Tristano di Genova, del Trovatore di Chicago, della Fedora e del Pirata (e addirittura del video della Sonnambula) della Scala e di altro ancora; degli anni ad Atene, dei primi anni in Italia e degli anni della piena maturità artistica.
Una carriera relativamente breve, bruciata in un arco temporale inferiore a venti anni (se si esclude il mesto ritorno sulle scene per i concerti con Di Stefano negli anni '70), con un picco ai massimi livelli di circa dieci, quando fu soprano drammatico, soprano di coloratura, interprete eclettica, amante dello stile belliniano, eppure efficace anche in ruoli veristi. Goffa e sovrappeso e poi trasformata in una figura magra e affascinante, fischiata dai detrattori alla Scala anche in alcune tra le recite più mitiche e osannata fino al delirio nelle ultime stremate esibizioni degli anni '60, sempre più rifinita nel fraseggio a mano a mano che la voce si impoveriva, sempre in lotta con uno strumento potente, esteso, dal colore scuro, inconfondibile anche nelle asprezze. Uno strumento a suo modo fragile, perché immolatosi presto nel nome dell'arte e dell'assenza di limiti nel repertorio.
Si è scritto tanto sulle testimonianze sonore della Callas e un ricordo che non si limiti ad un'elencazione di ruoli, di recite famose, di dischi celeberrimi e più volte ristampati non può che indirizzarsi a un'analisi parziale del suo lascito.
Si è scelto così uno dei ruoli-simbolo dell'arte del soprano, sufficientemente documentato (ma non per intero dal disco ufficiale), però toccato e abbandonato in teatro, testimonianza degli anni dell'onnipotenza esecutiva e di quelli del declino, degli ultimi sprazzi di arte suprema, tra occasioni mancate per riprendere il ruolo in nuove recite o in una registrazione completa in studio, nastri radiofonici difettosi, recital alla RAI, brani in concerto, riprese audio incomplete, una piccola ma preziosa testimonianza video, con tanto di nota quasi steccata. Tanto o poco, a seconda dei punti di vista, eppure abbastanza per alimentare il mito: Lady Macbeth. Un ruolo dove c'è molta Callas:: il soprano drammatico, la voce cupa, l'estensione dai gravi profondi al sovracuto, le agilità, la personalità interpretativa, una gran scena e una cabaletta da vera primadonna, la donna cattiva che si rivela vulnerabile.
Macbeth è una delle opere per le quali la Callas è maggiormente ricordata, pur non essendo mai stata incisa in studio e pur se cantata in un'unica serie di recite, e la registrazione live rimasterizzata di quest'opera è stata appena pubblicata dalla Warner in un grande cofanetto contenente alcune delle più famose esibizioni dal vivo del soprano.
Nei primi anni '50 l'opera che sancì il primo incontro tra Verdi e il teatro di Shakespeare era ancora considerata un titolo raro e quasi sconosciuto, nonostante alcuni timidi tentativi di riscoperta, la maggior parte dei quali nati attorno a soprani wagneriani: dall'edizione viennese in lingua tedesca del'43 diretta da Bohm con Elisabeth Höngen, a quella berlinese del 1950 con Martha Mödl e Keilberth sul podio, fino a quella dell'anno successivo al Maggio Musicale Fiorentino diretta da Gui, in occasione del cinquantenario della morte di Verdi, con Astrid Varnay.
La Rai non inserì Macbeth tra i titoli eseguiti nelle radiotrasmissioni del '51 in cui si celebrava il sopra citato cinquantenario verdiano e così si perse una prima occasione (invero solo ipotetica) per ascoltare la Callas nel pieno dei suoi mezzi in un'esecuzione che sarebbe stata immortalata su nastro. Altra e più concreta occasione perduta (in questo caso di un incontro unico e mitico) di cui si favoleggia nelle biografie riguarda un'audizione dell'appena ventottenne soprano con l'anziano Toscanini in vista di alcune recite dell'opera a Busseto, che però mai videro la luce.
La Rai rimediò in parte alla distrazione affidando alla Callas l'aria di sortita con cabaletta nel recital radiofonico del 18 febbraio 1952. Il primo approccio con la parte, pubblicato da diverse etichette (Cetra in testa) con suono monofonico eccellente, lascia quasi turbati per l'affinità del soprano con la scrittura musicale e con il personaggio. Dirige (male) Oliviero de Fabritiis, malissimo nell'aria, moncata della lettura della lettera e addirittura del recitativo, tenuta su tempi mosci e improponibili, ma dove la Callas impone sin dalla prima nota, nonostante tutto, la pienezza di uno strumento rigoglioso, all'epoca scuro come non mai.
Al di là dello sciocchezzaio sulle volontà di Verdi circa la “voce brutta” che avrebbe voluto per interpretare la sua creatura, il soprano fa ascoltare come nata per miracolo la voce ideale per Lady Macbeth, scura e demoniaca. “Bella, ma non classicamente” fu l'azzeccata descrizione di Piero Mioli per la voce della Callas. Diabolica, quasi ultraterrena, adatta a rappresentare una donna avida di potere e crudele senza dover camuffare (come ben le riuscì ad esempio nella Butterfly in studio con Karajan) quel timbro metallico e intubato in certe zone dell'ampia estensione, che certo rotondo e vellutato non era, ma era comunque capace di affascinare e distinguersi sin dal primo ascolto. E l'innata sensibilità di musicista della Callas le consente di imporsi anche nell'aria, nonostante i tempi sballati di de Fabritiis, non meno che nella cabaletta, dove la direzione si ravviva e supporta a sufficienza l'energia trascinante del soprano. Un ascolto imprescindibile, insomma, nonostante i tagli, nonostante tutto.
La Lady Macbeth della Callas aprì la Scala quello stesso anno con cinque recite (il 7, 9, 11, 14 e 17 dicembre) che costituirono il suo debutto, ma anche l'isolato cimento nel ruolo completo dell'intera carriera, oltre che uno del suoi due unici iincontri artistici con Victor de Sabata in teatro, un anno prima della registrazione della celeberrima Tosca con Di Stefano e Gobbi.
La registrazione della serata inaugurale, pubblicata in LP e poi in cd da miriadi di etichette, diventò presto uno dei pezzi obbligatoriamente presenti in qualsiasi collezione discografica. Non si tratta del nastro radiofonico ufficiale, andato perduto (come pressoché tutte le riprese radiofoniche della Rai che non fossero tratte da esecuzioni della stessa radio di stano), ma della pionieristica registrazione che un appassionato realizzò collegando un apparecchio casalingo all'impianto radio.
Il suono è sufficientemente buono per poter apprezzare la prova di una Callas ancora pesante e impacciata nell'aspetto, ma dalla vocalità calda e sicura, dai gravi tenebrosi e dagli acuti ricchi di suono, con le agilità di forza nelle quali il mordente e la capacità di penetrare il personaggio si uniscono alla perizia tecnica della belcantista pura; una prova che per molti appassionati costituì il paradigma di come si canta e interpreta Lady Macbeth, sebbene si trattasse della prima recita nel ruolo di una cantante non ancora trentenne.
La grande direzione di de Sabata contribuì a rafforzare il mito di quella serie di recite, anche se a tratti si scorge un filo di distacco e di mancanza di abbandono. Il direttore, poi, travisa completamente la scena del sonnambulismo, nella quale corre insensatamente. Qui la Callas compie il miracolo che aveva già realizzato mesi prima con de Fabritiis nell'aria, dove era riuscita ad imporre un atteggiamento veloce all'interno di un tempo troppo lento. In questa occasione riesce nell'esatto opposto, facendo sembrare, con la forza dell'accento, i tempi di de Sabata più lenti di quanto non siano. La registrazione costituisce l'unica occasione per ascoltare la Callas nel brindisi e nei duetti con il baritono, in questo caso il buon Mascherini, che al pari di Tajo e di Penno riesce a non sfigurare a fianco di tanta Lady Macbeth. La maledizione di occasioni mancate o di incompletezza della registrazione o di tagli colpisce anche qui, perché la ricezione della radio del benemerito appassionato ebbe seri problemi durante il concertato a cappella al termine del primo atto, così che nella maggior parte delle edizioni discografiche è stato scelto di completare la scena con un frammento di un'altra recita di un'altra produzione di molti anni più tarda e ovviamente con diverso cast. Ma sono disponibili anche edizioni che presentano il prezioso cimelio così com'è.
Lasciamo perdere se questa sia stata la migliore, l'insuperabile Lady Macbeth di ogni tempo, giacché molti dei cosiddetti vedovi Callas ammorbano il dibattito sulla storia interpretativa con l'imposizione dell'amata come unica e inarrivabile in ogni ruolo che abbia cantato, in una logica da “classifica” che offende l'arte e non onora neanche un'interprete somma quale la Callas è sicuramente stata, ma che magari a ben vedere, in questo come in altri ruoli, ha trovato chi ha potuto guardarla come minimo da pari a pari. Basti pensare, per fermarsi alla sanguinaria regina di Verdi (e di Shakespeare), a Shirley Verrett.
Dopo queste cinque recite il ruolo fu abbandonato, ma non uscì del tutto dal repertorio della Callas, che non riuscì mai ad ottenere (per questo come per altri) da Walter Legge della EMI una registrazione completa. Opportunamente, però, quando iniziò ad alternare le opere sul palcoscenico con i concerti, cominciò a inserire i brani da Macbeth nei programmi, non limitandosi all'aria di ingresso.
La prima testimonianza del nuovo approccio a questa musica da parte di una Callas nel frattempo trasformata fisicamente in una snella e fascinosa creatura dai lineamenti aguzzi, fasciata dai sofisticati abiti di Biki, si ebbe nelle prove in vista del concerto di Dallas, con Rescigno sul podio, registrato il 20 novembre '57. La lettura della lettera è impacciata, come era sempre stata e come sempre rimarrà, e il recitativo è attaccato con qualche cautela, sia perché si tratta di prove, sia perché la voce ha perso in sicurezza ed espansione. Si tratta di prove vere, con ripetizione di parti di brani e di cadenze e con note che vengono talvolta tenute a voce spiegata e talvolta accennate. Un documento di estremo interesse.
Macbeth viene accantonato fino al settembre dell'anno successivo, quando la EMI si decide finalmente a far entrare la Callas in sala di registrazione per il primo (e più riuscito) dei tre recital verdiani che le farà incidere. Di Macbeth vengono scelti l'aria di sortita con cabaletta, La luce langue e la Scena del Sonnambulismo. Sul podio Rescigno è efficiente e diligente, non originale, ma a tratti ispirato e capace di assecondare il soprano. Se le prime due arie sono da ascoltare per godere del suono pulito (e già stereofonico) della sala di registrazione, in brani che Callas aveva cantato con mezzi più rigogliosi, la scena del Sonnambulismo, pur privata dalla produzione - per mere questioni di budget - degli essenziali interventi di Medico e Dama nell'introduzione, costituisce forse uno dei vertici della musica operistica riprodotta, perché la voce di quegli anni, solo lievemente impoverita nella fibra e negli armonici, non costituisce un impaccio per la Callas, ma addirittura la agevola per costruire una scena realmente notturna e sinistra, che dalla prima all'ultima nota esprime la disperazione di un'anima devastata, in cui il crescendo drammatico culmina con il re bemolle conclusivo affrontato “in morendo”, assai più evocativo (e vicino al volere di Verdi) di quello eseguito con voce quasi piena alla Scala sei anni prima.
Appena due mesi dopo si perde l'ultima occasione di ascoltare la Callas in quest'opera, perché nel novembre il soprano rifiuta di firmare il contratto con il Metropolitan che le avrebbe imposto di alternare Lady Macbeth con La Traviata.
Il 29 novembre dello stesso anno la Callas esegue ancora l'aria di ingresso, con la lettera e il recitativo, ma senza cabaletta, in un concerto a Los Angeles diretto con qualche pesantezza da Rescigno, la cui registrazione fu ritrovata in tempi recenti. Vieni, t'affretta diventa uno dei cardini dei suoi concerti del 1959, a partire da quelli del 15 maggio ad Amburgo e del 19 maggio a Stoccarda, quest'ultimo molto buono nell'esecuzione ed eccellente nel suono della registrazione, il primo addirittura conservato in video, così da dare modo di assistere alle uniche immagini esistenti della Callas che esegue musica dal Macbeth.
Proprio in quell'occasione la salita all'acuto nel recitativo per un attimo non si trasforma in una stecca. Roba da poco, sottolineata da un gesto con la mano della cantante che sembra dire: “può capitare”. Significativo di un declino vocale che si era manifestato dopo la metà degi anni '50, ma che da quel momento iniziò ad essere più evidente e che si accentuò ulterormente di lì a pochi mesi, in corrispondenza dell'abbandono di Meneghini per inseguire il sogno d'amore con Onassis.
È del settembre del '59 la terza e ultima testimonianza della Scena del sonnambulismo, eseguita alla Royal Festival Hall di Londra con la direzione del solito Rescigno e registrata in sala da uno spettatore con i mezzi che potevano essere disponibili all'epoca. La Callas è ancora una tigre, ancora più cupa e straziata che nelle due precedenti esecuzioni.
E nella stessa sala, in quella Londra che ospiterà nel 5 luglio 1965 l'ultima esibizione scenica del soprano (in Tosca), il 27 febbraio del 1962 la Callas affronta per l'ultima volta la musica di Macbeth e offre una testimonianza estrema di La luce langue, lottando con uno strumento nel frattempo diventato aspro e diseguale, ma quella sera in buona forma così che la diva, che non immaginava di essere già vicina al capolinea della carriera, è ancora fieramente capace di tirare fuori gli accenti aggressivi e spietati di un tempo. Dirige Georges Prêtre, che per ulteriore coincidenza sarà sul podio anche di quell'ultima, estrema Tosca di tre anni dopo.
Il rudimentale apparecchio per registrare nella mano dell'appassionato fa i capricci e la riproduzione della scena si interrompe improvvisamente prima della fine del brano. Triste epilogo, ma forse, se si vuole cercare un significato in ogni cosa, l'unico possibile.
Fabrizio Moschini
Fabrizio Moschini